Bad Manor – “The Haunting” (2022)

Artist: Bad Manor
Title: The Haunting
Label: Avantgarde Music
Year: 2022
Genre: Avantgarde Black Metal
Country: Internazionale

Tracklist:
1. “The Room With Six Hundred And Sixty-Six Eyes”
2. “The Study, Filled With Books”
3. “Through The Garden, To The Graves”
4. “An Incident In The Nursery At The Witching Hour”
5. “Hallowed Ground”

The house, the subject of my studies, went out in a blaze today. I think I could hear it screaming. After discovering the guestbook and its recorded appendices in a hidden chamber, I vowed to make the story public, but this place, this haven of evil and sadness, could no longer stand. The manor mocked me, walls breathing as if this place of wood and brick were laughing, as I entered with a jug of gasoline…

Non è un mistero così grande, sebbene non ne si possa fare una regola delle più ferree a cui persistono pertanto e puntualmente le eccezioni maggiormente illustri: per un avido ascoltatore di musica, le sorprese inaspettate piuttosto che le gradite conferme sono quelle che restano più a lungo nel cuore, quelle che vi si trovano un posticino in grado di allargarsi poi e prendere così sempre più spazio nel tempo in base all’effettivo valore, calcandovi a tradimento la loro lama in profondità. A ciò si aggiunge qualcosa che tutti del resto sanno, ma che solo pochi sembrano aver davvero compreso o riuscire a mettere in atto di questi contraddittori tempi; vale a dire che qualora nel calderone della meraviglia inattesa di fronte all’arte si mescola una certa e sanissima dose di mistero, d’impossibilità nell’informarsi su questa apparizione in maniera più puntuale rispetto alla mera, suggestiva superficie di rito, allora quel che si genera è qualcosa di veramente esplosivo, che odora di autenticità senza orpelli che non siano imbastiti come piccolo ma lucente specchietto per allodole nemmeno troppo furbe. Un rapimento, se le circostanze lo permettono; un inquieto ospite che tormenta sul fondo della mente, al minimo, e che reclama il suo posto d’onore sulle mensole accanto a quegli altri nomi in precedenza sconosciuti che si è imparato ad amare dopo essere stati travolti da questa novità – effettiva o percettiva che sia.

Il logo della band

“The Haunting” è molto presumibilmente uno di quei dischi, di quelli che infatti quasi sembra non li abbia realizzati una band. Perché difficile è ritenere in effetti un gruppo in senso musicale stretto qualcosa come i Bad Manor, più in tutta evidenza figli del modo d’intender l’underground e l’esplorazione artistica di quelle compagini di alternativi drammatici avvoltesi nel mantello nero della musica Dark tra gli anni ‘80 e i ‘90: il Black Metal che esce martellante, storto e sgraziato dagli speaker prescelti all’atto è dunque raffinato nella sua grossolana e volutissima realizzazione sonora, non differentemente per feeling a come dei misconosciuti The Dead Relatives suonano nei lasciti avvolti da una nebbia religiosa ed esoterica nell’annata 1985; non così distante dai progenitori The Damned (non casualmente omaggiati dal collettivo protagonista dello scritto che state leggendo con la clamorosa interpretazione di una “Love Song” inclusa come bonus nel nastro d’anteprima dell’album rilasciato privatamente); non lontano pertanto da quel modo di rubare il vino alle melodie chitarristiche dei Christian Death, quelle luci ed ombre tipiche del Gothic Rock inciso insomma attorno a quelle coordinate temporali, e lasciare che questo imbeva il pane rancido delle corde distorte e tirate oltre ogni possibilità umana dal Métal Noir.
Questo sforzo collaborativo che prende forma in una sorta di strano resoconto di eventi misteriosi e paranormali in musica, una bizzarra specie di diario di bordo dell’assurdo non di un vascello bensì di una casa dai seicento e sessantasei occhi iniettati di sangue in cui si svolgono sedute spiritiche che non sarebbero dovute mai essere condotte dal professional spirit medium Stephen R.C. Sicreeve, dal vessel phantasmique Monsieur Malediction, ed ivi documentate dallo scomparso professor Lada S. Lazarescu, portate dunque a termine dai finali riti dattilografici di Lord Elzevir con l’orchestrazione congiunta di coloro che scelgono i nomi d’arte The Impaler, The Ghastly Vrykolak, The Haunted Strigoi, Phallus A. Blaze (as the skinner of cats), e fedelmente illustrato da Landis Blair; questo impegno a molte mani, dicevamo, cerca costantemente di essere qualcosa di più grande della comune arte dell’ordine dei vampiri curiosamente definitisi orientali che ne sono autori. Una possessione diabolica che diventa presto incontrollata ed incontrollabile, non dissimilmente a ciò che -metaforicamente o meno- questa musica dovrebbe sempre spingersi ad essere.

Appena discostati dalla vista i neri rami scheletrici che come una cornice nella nebbia attorniano le mura legnose del maniero che deve morire, la sua porta scricchiolando si apre e veniamo accolti da organi a canne che, strumento gotico par excellence, accompagnano quei giri tondi di cassa funesti, funebri come li hanno intesi dapprima le anime oscure d’Albione tra le tre e quattro decadi or sono, qui deviati e prestati ad una nondimeno scarna scrittura, ma parimenti grandiosa e in qualche modo anche primitiva nonostante il suo eclettismo direzionale, sapente trarre vera ispirazione tanto dai modelli di quei tempi antichi di ormai trent’anni fa, quanto dalle avanguardie che li seguono rivoluzionarie come reazione. Dunque non è così improbabile definire “The Haunting” uno strano disco di autentico quanto spettrale Avantgarde Black Metal, nonostante l’estrema ruvidezza di suono ed estetica che è figlia di un trovatello a sua volta: un pargolo avvolto in coperte lacere ed abbandonato in una gelida notte d’inverno da qualche parte a metà strada tra le spiritiche fascinazioni estetico-liriche e narrative di un King Diamond fra “Conspiracy” e “Woodoo”, l’efferatezza scarna di suono di dei Bekhira, dei Belketre e dei Parnassus, e dell’avanguardistica, assurda teatralità non solo vocale proprio degli A Forest Of Stars (si pensi alle atmosfere nel finale di una “Hive Mindless” da “Beware The Sword You Cannot See”, coniugata ad “A Blaze Of Hammers”), il cui istrionico messere che risponde all’anagrafe come Dan Eyre effettua qui una curiosa trasmutazione in stile Jekyll e Hyde da Mister Curse a Monsieur Malediction – di personaggio, vale a dire, ma non di personalità che resta francamente inconfondibile (la prestazione d’eccellenza del perverso “Grave Mounds And Grave Mistakes” non è davvero poi troppo distante).
Lo studio nel cuore della casa, riempito zeppo e soffocante di libri come di ritratti con vita propria la stanza d’ingresso, è testimone silenzioso delle malefatte che strepitose si compiono in musica mentre tastiere maledette si fanno strada tra lo sfrigolare -letteralmente!- metallico di corde impazzite, le quali gettano serpenti su scale minori (con quella tragicità sinfonica à la Romeo & Juliet, come la definirebbe il buon Snorre W. Ruch) riempite dall’ugola eccezionale di chi ne sta cantando, invasato, originalissimo e tremendamente allucinato l’accademica relazione in preda alle traveggole emotive. Ma queste diventano troppo presto non più controllabili e gestibili dai protagonisti della seduta medianica in corso: attraverso il giardino, in ritirata verso le tombe di famiglia per cercare una fuga rocambolesca che sa tanto dello humour nero degli Addams quanto della spaventosa visione di un precipizio al termine della propria corsa originariamente intrapresa per salvarsi la vita.
Così il collettivo di studiosi e ricercatori dell’occulto, nella dispersione, si unisce ancor di più: ogni brano, lungo lo scorrere fluido dell’album e lungo quello spericolato della storia, diventa più coeso e riuscito del precedente benché, va detto, già dall’accoppiata di “The Study, Filled With Books” e “Through The Garden, To The Grave” si raggiungano risultati difficilmente superabili. L’intrigante apertura cede infatti il passo alla lentezza ossessiva e alle reiterazioni vocali mai così ossessionate del secondo, che a sua volta precede l’ancor più fortunato moto di devastazione dalla portata melodica sublime del terzo atto, con la sua seconda metà indimenticabile. Gli incidenti che seguono quando il campanile segna tre rintocchi e mezzo nel pieno della notte, in una nursery dove quel diavolo di un dio è silenzioso nella sua dolorosa assenza o parla al più la lingua delle streghe, sono infatti quasi di passaggio e brutalmente recisi prima del gran finale in cui tutto si comprime nuovamente e distende lungo dieci minuti abbondanti di atmosfera squisitamente magnetica guidata dall’ipnotismo circolare del basso come fosse una magia di nerissima fattura.

“The Haunting” degli anche concettualmente particolarissimi Bad Manor è dunque, tale fin dal primo ascolto, un lavoro interessantissimo e decisamente da non lasciarsi sfuggire. E benché l’imponderabilità di questa malattia a trasmissione scritturale suonata rumorosissima, smaccatamente raw ma pensata e vergata su pentagramma con un gigantesco guizzo d’intraprendenza creativa sia, come probabilmente evidenziato, musicalmente parlando sempre in agguato dietro ogni possibile angolo, la facilità d’ascolto e una memorabilità tanto continuativa di svariati episodi all’interno dei brani fanno sì che le sue malie lavorino incessanti come un delizioso tormento anche a disco spento: tra scudisciate affilate come lame arrugginite al tetano, melodie sinistre imbevute di veleno e un’imprevedibile prova vocale di davvero eccezionale platealità, qualcosa di maligno e d’infestante si annida a tutti gli effetti nei recessi inquieti di questo sorprendente debutto – così come si nasconde irrequieto e conturbante tra le vecchie mura di una casa dai seicentosessantasei occhi che doveva soltanto… morire…

Matteo “Theo” Damiani

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